Autore Topic: Nervi tesi in azienda, il dipendente definisce ignorante un dirigente: [Lavoro]  (Letto 845 volte)

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Offline ninfea


Nervi tesi in azienda, il dipendente definisce ignorante un dirigente:
niente licenziamento


Nonostante la condanna del lavoratore, in sede penale, per il reato di ingiuria, la condotta viene ritenuta non così grave da giustificare l’interruzione del rapporto con l’azienda. Ciò che va tenuto in considerazione è anche il contesto in cui è avvenuto l’episodio.


Il caso

Scontro verbale durissimo tra lavoratore e dirigente: quest’ultimo viene apostrofato in malo modo, e definito un ignorante. La lite ha ripercussioni, innanzitutto sul fronte penale: il lavoratore, difatti, viene condannato per il reato di ingiuria. Ciò, però, non basta per ritenere legittima la misura estrema adottata dall’azienda, ossia il licenziamento dell’operaio. (Cassazione, sentenza 14177/14).

Nessun ‘cono d’ombra’ sulla vicenda, ricostruita in maniera chiara: un lavoratore ha rivolto «espressioni ingiuriose, alla presenza di alcuni dipendenti» nei confronti di un «quadro direttivo funzionario di direzione aziendale». Tutto ciò conduce – oltre che a un procedimento penale – anche al «licenziamento per giusta causa» del dipendente. Ma tale provvedimento, confermato in Tribunale, viene ritenuto illegittimo dai giudici della Corte d’Appello, i quali ritengono preponderante la valutazione della precaria situazione psichica del lavoratore. Quest’ultimo, difatti, «versava» in un «comprensibile stato di apprensione» alla luce delle proprie preoccupazioni per la «salute» della moglie, che – anch’ella dipendente della società – era «in stato di gravidanza a rischio» ed era stata «convocata in azienda per la restituzione di una chiave»: proprio la donna «aveva sollecitato un suo intervento in ufficio», e in quel contesto «era insorta l’animata discussione» tra l’uomo e il dirigente.

Quadro personale delicato, quindi, quello del lavoratore. E, comunque, aggiungono i giudici d’Appello, è «obiettiva l’assenza, nelle frasi pronunciate» dall’uomo all’indirizzo del dirigente – tra l’altro, ‘sei un ignorante’ – di una «intrinseca valenza intimidatoria», apparendo piuttosto come «espressione di uno sfogo emotivo, mosso dalla affectio maritalis ed accompagnato da una mal controllata gestione dei propri mezzi espressivi». Di conseguenza, non è ipotizzabile, secondo i giudici, alcuna «manifestazione di ribellione nei confronti degli assetti aziendali costituiti». Di avviso opposto, ovvio, i legali della società, i quali ribadiscono la tesi della legittimità del licenziamento. A sostegno di questa visione, in Cassazione, anche il richiamo agli «accertamenti in sede penale, culminati con la condanna» del dipendente, ritenuto «colpevole del reato di ingiuria» per le parole rivolte all’«institore della società datrice e, quindi, ‘alter ego’ dell’imprenditore».

Secondo i legali, balza agli occhi il «grave fatto di insubordinazione, ampiamente lesivo del prestigio del datore di lavoro» compiuto dal dipendente. Tutto ciò, però, non modifica minimamente l’ottica adottata dai giudici di merito: difatti, la declaratoria di «illegittimità del licenziamento» viene confermata dai giudici del ‘Palazzaccio’. Fondamentale la «valutazione», per decidere sulla «proporzionalità della sanzione espulsiva», sì della «condotta addebitata al lavoratore» ma anche di tutte le «circostanze». In questa ottica, alla luce della vicenda così come ricostruita nei giudizi di merito, per i giudici è evidente la «insussistenza della dedotta gravità della mancanza ascritta al lavoratore».



Fonte: www.dirittoegiustizia.it

                                  
 


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