Autore Topic: Il business delle armi  (Letto 1021 volte)

Descrizione:

0 Utenti e 1 Visitatore stanno visualizzando questo topic.

Offline ridethesnake

  • Vice Amministratore
  • *
  • Post: 8665
  • Ringraziato: 4 volte
  • Karma: +476/-3
  • Quando aiuti qualcuno aiuti te stesso.
Il business delle armi
« il: Ottobre 20, 2008, 10:36:21 am »
L’ITALIA CHE VENDE E COMPRA MORTE: I NUMERI DEL GRANDE BUSINESS DELLE ARMI NEL MONDO E IN ITALIA!

Spirano venti di Guerra Fredda e le spese militari hanno raggiunto e superato i valori di quel periodo. Secondo il più recente rapporto SIPRI, le spese militari mondiali ammontano nel 2007 a 1339 miliardi di dollari, con un incremento in termini reali del 6% rispetto all’anno precedente e del 45% dal 1998 (SIPRI Yearbook 2008). La ripresa è iniziata nel 1998 – ben prima della fatidica data dell’11 settembre 2001 – per poi intensificarsi dopo l’attacco alle torri gemelle, gli interventi in Iraq e in Afghanistan, le crisi e le tensioni a livello regionale e internazionale. A oggi le spese militari internazionali corrispondono circa il 2,5% del PIL mondiale. Chi spende più in armamenti sono gli Stati Uniti, che, da soli, coprono circa il 45% delle spese militari mondiali. Seguono, con un certo distacco, Gran Bretagna, Cina, Francia, Giappone, Germania, Russia e Italia. La Russia registra un incremento del 13% rispetto all’anno passato, e dell’86% nell’arco di un decennio, mentre la Cina ha aumentato di tre volte le proprie spese militari in termini reali nell’ultimo decennio. Ma gli aumenti si registrano un po’ in tutto il mondo, in particolare nei paesi dell’Europa dell’Est, del Medio Oriente e del sud-est Asiatico. I paesi con un reddito elevato (principali erogatori di aiuti per lo sviluppo) hanno speso in media dieci volte di più per le spese militari rispetto alle spese allo sviluppo e la cooperazione. Crescono i profitti delle prime 100 aziende a produzione militare (escluse quelle cinesi) – di cui 44 americane, 34 europee – in un mercato sempre più concentrato e internazionalizzato, ma sul quale rimane forte il controllo statale. Aumentano, in particolare, le esportazioni di carri armati (utilizzati nella guerra in Iraq), servizi militari, alta tecnologia elettronica e telecomunicazioni in armonia con la revolution in military affairs. Anche il commercio internazionale è complessivamente in ripresa dal 2002. In costante aumento sono le esportazioni dei paesi dell’Unione Europea, che con il 41,7% delle esportazioni mondiali di armamenti, conquistano la fetta più grande, superiore anche a quella di Stati Uniti e Russia. I primi cinque esportatori (Stati Uniti, Russia, Germania, Francia e Regno Unito) coprono l’80% delle esportazioni mondiali di armi. Principali importatori sono Cina e India, seguite dagli Emirati Arabi Uniti. Complessivamente continuano a trainare la domanda i paesi dell’Asia e del Medio Oriente.
La relazione italiana
Il trend dell’export italiano di armi registra una crescita ancora più marcata di quella internazionale. Secondo la relazione annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, le esportazioni autorizzate sono aumentate del 9,4% rispetto all’anno passato, raggiungendo i 2369 milioni di euro, cifra che deve essere quasi raddoppiata se si considerano anche le autorizzazioni definitive rilasciate per programmi di coproduzione intergovernative. Rimessi a posto, con una certa difficoltà, i conti sulle movimentazioni di pezzi e componenti di molte coproduzioni internazionali avviate negli anni 1996/98 e poi sospese o terminate, si è individuata la cifra di 1846 milioni di euro, cui si aggiungono ulteriori 1804 milioni di euro di movimentazioni inerenti le coproduzioni ancora in corso. Le operazioni di esportazione effettuate sono state di circa 1238, con un incremento del 31,3% rispetto all’anno passato. Si rafforza la posizione di Finmeccanica a livello europeo e internazionale. Con un fatturato di 13,4 miliardi di euro di ricavi complessivi (di cui circa il 50% nel settore militare) e con un utile netto di 484 milioni di euro, 60 mila dipendenti tra Italia e Gran Bretagna, la principale azienda italiana ha realizzato una crescita dovuta in buona parte ad acquisizioni di imprese europee e statunitensi, sostenuta anche da decreti, azioni e sovvenzioni, direttamente o indirettamente, statali (Gianni Dragoni, Finmeccanica una crescita poco redditizia, Il sole 24 ore, 26 aprile 2008). Le principali imprese esportatrici di quest’anno sono la MBDA Italia (Finmeccanica) con 443,9 milioni di euro, seguita da Intermarine (244,8 milioni di euro), Fincantieri, Augustawestland, OtoMelara, Galileo Avionica, Avio, Iveco, Alenia Aermacchi. Le banche che hanno svolto un ruolo maggiore nell’appoggio all’export sono Unicredit, Banca di Roma, Intesa San Paolo. Cresce il ruolo degli istituti esteri Deutsche Bank, Citybank, ABC International Bank e BNP Paribas (cfr. Giorgio Beretta, su www.unimondo.org). I principali importatori di armi italiane sono nell’ordine il Pakistan con 471,6 milioni di euro di autorizzazioni alle esportazioni, seguito da Finlandia (250,9 milioni di euro), Turchia (174,5 milioni di euro), Regno Unito (141,7 milioni di euro), Stati Uniti (137,7 milioni di euro), Austria 119,7 milioni di euro), Malaysia, (119,2 milioni di euro), Spagna (118,8 milioni di euro), Iraq (84 milioni di euro) e Francia (82,3 milioni di euro). Uno sguardo al profilo dei destinatari di armi italiane mostra quest’anno diversi paesi classificati in stato di conflitto armato intenso dall’Uppsala Conflict Database, come l’Iraq, cui sono andati pattugliatori marittimi dell’OtoBreda, l’India, che ha importato apparecchiature per la visione di immagini, addestramento e simulazione, munizioni e navi da guerra, la Nigeria, cui sono state consegnate armi per 16 milioni di euro e ancora Israele, lo Sri Lanka, la Russia, la Tailandia. Ugualmente compaiono diversi paesi che non rassicurano per il rispetto dei diritti umani. All’Arabia Saudita sono andate parti di ricambio per Tornado, alla Malesia velivoli di addestramento MB339 e sistemi di artiglieria navale, all’Oman e agli EAU sono stati forniti elicotteri, alla Libia carri armati, all’Egitto apparecchiature elettroniche. Alla Cina, nonostante l’embargo totale sull’export armi, sono comunque state autorizzate esportazioni di sensori di velocità e parti di ricambio per ricetrasmittenti. Il Pakistan – primo acquirente di armi italiane – è beneficiario di autorizzazioni alle esportazioni di ‘missili terra-aria’ tipo Spada-Aspide esportati dalla MBDA della Spezia. Complessivamente circa il 30% del valore delle esportazioni autorizzate di armi nel 2007 si è diretto a paesi in stato di conflitto armato intenso – ma solo il 3,5% a paesi in guerra con più di 1000 vittime nell’anno 2007 e circa il 30% è andata a paesi classificati come “non liberi” dall’istituto di ricerca statunitense Freedom House.
L’applicazione dei divieti
Eppure la legge n. 185/90 che regolamenta l’export italiano di armi, prevede, tra gli altri, proprio il divieto di esportare armi a paesi in stato di conflitto armato e a paesi i cui governi siano responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. È evidente che le maglie della legge si sono allargate in seguito a numerose delibere applicative non sempre coerenti con il disposto del legislatore, in parte formalizzate successivamente con l’approvazione delle modifiche di cui alla legge n. 148/03. Ad esempio, il divieto sui diritti umani ha subito delle modifiche in seguito ad atti applicativi formalizzati poi nella legge n. 148/03, che ha aggiunto l’aggettivo “gravi” e ha specificato che le condanne devono essere accertate dagli appropriati organi UE, ONU e Consiglio d’Europa. Si sono così per legge eliminati i possibili riferimenti a Organizzazioni Non Governative accreditate come Amnesty International o Human Right Watch. A ciò si aggiunge la prassi di scegliere gli unici due organi intergovernativi (Commissione ONU per i diritti umani e condanne in sede PESC/PESD) bloccati da considerazioni di natura strategica nelle loro valutazioni. Tuttavia, come sostenuto da alcuni giuristi, non mancano appigli per una migliore applicazione dei divieti, facendo riferimento a organi più imparziali delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. I divieti, infatti, restano formulati per legge primaria nel senso che si applicano a tutti i materiali di armamento, senza ammettere eccezioni. Tutto ciò ha un valore politico nei confronti dei paesi aggressivi o repressivi, e anche un valore pratico sul versante applicativo. La loro formulazione mira a superare sia una logica puramente economica, sia la logica dell’amico nemico, in funzione di regole stabili e universali stabilite dal diritto internazionale e dalla Carta delle Nazioni Unite.
Quel lontano 1985
Ma la legge italiana è ancora attuale o, come si sostiene da più parti, è ormai superata e anacronistica? Il dibattito per la sua approvazione fu avviato più di 20 anni fa, nel lontano 1985, proprio in un periodo di massima espansione dell’export italiano di armi, acquistato per la quasi totalità da paesi in via di sviluppo, e in gran parte (quasi il 50% del valore globale dell’export italiano) da governi aggressivi o repressivi. In tale contesto nacque un movimento per la moralizzazione dell’export di armi italiane che portò, dopo più di cinque anni di dibattito, all’approvazione della legge n. 185/90. Negli anni immediatamente successivi la sua approvazione, diminuirono drasticamente le esportazioni di armi italiane a paesi inaffidabili, aggressivi o repressivi. Una prima lezione che si trae dal processo di approvazione della legge n. 185/90 è che la società civile e i cittadini sono spesso tra i pochi ad avere un interesse diretto in una migliore regolamentazione del commercio di armi (sia in fase normativa che applicativa e di controllo), chiamati a riempire spazi altrimenti lasciati vuoti dalla politica (e talvolta anche dal mondo scientifico) a livello nazionale e internazionale. Una seconda lezione è che gli strumenti normativi possono funzionare e realmente incidere se sono ben formulati, se sostenuti da un sistema di controlli e di sanzioni efficace e se vi è volontà politica. Tuttavia da quegli anni a oggi molto è cambiato: il sistema internazionale, il concetto di sicurezza, le tipologie dei conflitti e la natura degli attori, la percezione delle minacce alla pace, il tipo di armi prodotte e utilizzate e le risposte, associati al fenomeno di una crescente interdipendenza e globalizzazione dell’economia. Cosa resta ancora di una legge nata alla fine degli anni Ottanta? È davvero superata come in molti sostengono? A nostro avviso i principi di fondo sono ancora estremamente attuali se ripensati in un contesto europeo e globale:
1. Il principio di responsabilità politica è oggi più che mai attuale in un’epoca di globalizzazione e di europeizzazione dei mercati della difesa. Le catene produttive che si allungano da nord a sud, l’internazionalizzazione e l’entrata del capitale finanziario rendono il panorama complicato, offrendo appigli per ridurre i controlli nazionali e diluire la responsabilità politiche nazionali. Nello specifico quadro europeo, dove in particolare le industrie più potenti, di fronte ai ritardi dei governi, hanno preso l’iniziativa per l’integrazione dell’industria della difesa, è importante che i criteri commerciali siano subordinati a valutazioni politiche e giuridiche, che la dimensione economico-strategica sia guidata e integrata con quella politica, strategica, di sicurezza interna ed esterna, di cooperazione allo sviluppo dell’UE in un’accezione multidimensionale di sicurezza.
2. La legge prevede un sistema articolato di controlli incrociati e sanzioni. Le “assicurazioni politiche” sulla destinazione finale, la “fiducia” con i partner non sono strumenti efficaci in un mercato delicato quello degli armamenti. Le spinte verso la creazione di un mercato unico europeo degli armamenti richiedono con urgenza l’istituzione di un sistema centralizzato di tracciabilità e di controllo dei pezzi e componenti che si muovono tra industrie partner sino ad arrivare al destinatario finale.
3. Potere di indirizzo e controllo parlamentare nella politica esportativa. La legge conferisce grande importanza alla trasparenza, prevedendo un’ampia informazione al Parlamento e di conseguenza all’opinione pubblica sulle esportazioni di armi italiane e sugli operatori economici e finanziari. Passando dal livello nazionale a quello europeo, il ruolo del parlamento diminuisce e le peculiarità istituzionali richiedono di introdurre nuove forme di partecipazione democratica. Il rafforzamento di ruolo di indirizzo e controllo parlamentare e della società civile a livello europeo è ancora più importante nel contesto europeo nella duplice valenza di rafforzamento del demos europeo e di partecipazione dei cittadini alla formazione e consolidamento di una politica estera e di sicurezza europea, che ne rafforzi la dimensione politica e diplomatica. In termini più generali va recuperato il primato della politica e del diritto. Le proposte per il controllo degli armamenti vanno inserite all’interno di una riflessione più ampia e complessiva sul ruolo e sull’identità strategica dell’Unione Europea che parta da un’analisi delle nuove minacce, reali e percepite, uno studio delle risposte, quelle attuali e quelle possibili, civili e militari, il tipo di strumenti necessari per rendere efficaci tali risposte. Non sempre tipologie ed entità di spese militari risultano in sintonia con l’evoluzione del sistema internazionale, né con le nuove forme di conflittualità, non sempre i mezzi coerenti con i fini, non sempre l’equilibro tra risposte civili e militari risulta corretto, non sempre le linee di produzione, largamente sostenuta dallo stato, rispecchiano l’evoluzione del concetto di sicurezza. Non sempre le spese militari rispondono a reali esigenze di difesa, né a criteri di efficienza economica con ricadute occupazionali e di crescita. Non sempre l’entità e le destinazioni dell’export europeo di armamenti sono coerenti con il ruolo di mediazione e l’offerta di sicurezza che l’Europa sta tentando di offrire. In termini più generali è importante avviare a livello politico e scientifico una riflessione sulla coerenza globale dei mezzi dell’Unione Europea che spaziano dalla gestione delle crisi, alle politiche di sicurezza interna ed esterna, alle politiche di aiuto allo sviluppo, di sostegno della democrazia e di promozione dei diritti umani. Chiara Bonaiuti (Ires-Oscar Toscana)
 ???



 :applausi:
« Ultima modifica: Ottobre 20, 2008, 10:39:32 am da ridethesnake »
Se do da mangiare ad un povero, mi dicono che sono un santo, ma se chiedo perchè quel povero è povero, mi dicono che sono un comunista!



Se non avete niente di meglio da fare andate a farlo da un'altra parte.
 

Offline luna rossa

  • Moderatore
  • *
  • Post: 5777
  • Karma: +124/-2
  • uno x tutti tutti x uno
Re: Il business delle armi
« Risposta #1 il: Ottobre 20, 2008, 19:38:05 pm »
 :o :o :o :o sapevo che l'italia produceva armi  ma non fino a questo punto e meno male che non siamo un paese in guerra se no chi sa quante armi sfoderemmo ............. :ranting: :ranting: :ranting: botte botte botte botte


il mio regno non è di questa terra
 


Cliccate il BANNER sopra, sarete di grande Aiuto. GRAZIE !