Autore Topic: L'intervista: ineguaglianza causa principale della crisi occidentale  (Letto 502 volte)

Descrizione:

0 Utenti e 1 Visitatore stanno visualizzando questo topic.

Offline ambarambacicicoco

L'intervista: ineguaglianza causa principale della crisi occidentale
Nicola Cacace, ingegnere-economista esperto previsioni tecnologiche, ex presidente Nomisma

di Massimiliano Piacentini



Gli effetti della crisi economica sono sotto gli occhi di tutti e oggi non c’è più nessuno che neghi la realtà della crisi stessa. Ma parlare di crisi mondiale è sbagliato, così come è sbagliato ritenere che il tasso di produttività sia direttamente proporzionale a orari annui di lavoro più lunghi, o che l’eguaglianza sia un fattore che frena la crescita economica. Ne parliamo con l’autore del libro, Equità e Sviluppo -Il futuro dei giovani- Previsioni al 2020, Milano 2012.

Secondo la Banca mondiale, nella lista dei 50 Paesi più ricchi per Pil pro capite troviamo al primo posto la Norvegia e fra i primi diciassette la Danimarca, la Svezia, la Finlandia, l’Austria, l’Olanda, la Germania e la Francia. Considerato il coefficiente di Gini, che misura le diseguaglianze con valori che vanno da 0 a 1, questi Paesi sono definibili ad alta eguaglianza e stanno rispondendo alla crisi molto meglio di quelli a minor eguaglianza come Usa e Italia, che infatti “risultano, con Inghilterra e Grecia, i Paesi industriali a più alta diseguaglianza (indice di Gini superiore a 0,3)”.

-Quale è la natura della crisi economica attuale e quali sono le sue cause prime?
“La causa principale di questa crisi è il forte aumento delle diseguaglianze che si è avuto dagli anni ’80 in poi in quasi tutti i Paesi occidentali, dopo cioè l’avvento di Reagan negli Usa e della Thatcher in Gran Bretagna. Il fattore scatenante è stato la superfinanziarizzazione dell’economia, anch’essa conseguenza delle politiche iperliberiste. L’ammontare complessivo del valore finanziario, che 30 anni fa era una o due volte il valore del Pil mondiale, oggi è stimato in quasi dieci volte. La crescita delle diseguaglianze e il conseguente impoverimento del 70% delle popolazioni dei Paesi anglosassoni ed europei ha causato un forte calo della domanda aggregata e questo è certamente il primo fattore di crisi”.

-In Italia, dove il 50% della ricchezza è nelle mani del 10% delle famiglie, la situazione è particolarmente grave. Con un tasso di occupazione al 57%, rispetto alla media europea al 65%, il bel Paese risulta ultimo con 3 milioni di posti di lavoro in meno, dietro a Portogallo, Grecia, Spagna. Per le fasce giovanili la situazione non è certo rosea.
“Per l’Italia bisogna parlare di un declino che viene da lontano, perché non solo il Paese negli ultimi 15 anni non è cresciuto, ma ha subìto nei primi anni di questa crisi il più forte calo di Pil: 5-6 punti. L’Italia invecchia e invecchia male. L’età media della popolazione è 45 anni, ma il problema non è la vecchiaia anagrafica, poiché ci sono ottantenni che sono più innovatori di molti trentenni. Questo è un Paese in cui la filosofia del non innovare è stata premiata e ciò in un mondo in cui la concorrenza si fa sempre più sulla qualità dei prodotti e dei servizi non è certo un fatto positivo. Siamo l’unico Paese del mondo industriale dove gli orari di lavoro annui sono aumentati e l’ora di straordinario viene pagata meno dell’ora ordinaria: questo è un grande fattore antioccupazione”.

-Orari di lavoro e produttività, crescita economica ed eguaglianza.
“Gli esperti sanno che la produttività oraria diminuisce con l’allungarsi dell’orario e ciò soprattutto per i lavori manuali. L’Italia ha trascurato la qualità in favore della quantità e dell’orario lungo. Siamo tra i Paesi a più alti orari annui, circa 1.700-1800 ore contro le 1.400 dell’Olanda o le 1.500 della Germania. Questi Paesi hanno puntato sulla qualità, mentre noi puntando sulla quantità abbiamo prodotto salari sempre più bassi e invece di concorrere con le produzioni ricche facciamo concorrenza a quelle povere. Abbiamo un lungo orario di lavoro e una bassa produttività. Quanto all’eguaglianza, fino a 10 anni fa si diceva che il Pil degli Usa cresceva più di quello europeo a causa del fatto che in europa si puntava troppo sulla solidarietà e sullo stato sociale. I liberisti sostenevano, cioè, che vi era una relazione inversa tra crescita ed eguaglianza e che quindi i Paesi a più alta crescita erano quelli a minore eguaglianza. Tuttavia, i dati degli ultimi 10 anni dimostrano esattamente il contrario. Nel mondo globale, siccome conta la qualità conta l’uomo: il capitale si sposta dove trova opportunità di business e un patrimonio di risorse umane di alto livello è oggi la maggiore attrazione per gli investimenti ad alta innovazione”.

-Quello di attrarre investimenti è stato uno degli argomenti usati per sostenere le politiche dagli anni ’80 ad oggi. L’Italia però raccoglie solo una piccola quota di investimenti diretti esteri (Ide) in rapporto a quelli fissi.
“Mi piace portare l’esempio della Svezia, il Paese che attrae più investimenti diretti esteri al mondo nonostante l’alto costo del lavoro, la presenza di sindacati forti e una pressione fiscale molto alta. Il fatto è che quel Paese ha creato un ambiente adatto per investimenti ad alta innovazione. Così gli Ide sono arrivati anche fino al 30% degli investimenti fissi nazionali, mentre in Italia arrivano solo al 3%”.

-Torniamo alla crisi. Non sembra proprio che le politiche messe in campo finora da Ue e Bce stiano avendo successo.
“Bisogna sanare la contraddizione di una moneta che ingloba 17 Stati senza uno straccio di Stato federale. Ricordo che anche Prodi diceva che era rischioso fare la moneta senza avere una banca centrale con tutti i poteri, senza avere una politica fiscale ed economica comune. Ma si pensò di andare avanti nella costruzione europea per piccoli passi. Ciò non è stato sufficiente e oggi ne paghiamo le conseguenze: i singoli Stati vengono lasciati soli ad affrontare la speculazione e l’Europa non ha ancora capito che per difendere l’euro e se stessa c’è bisogno di più Europa e di maggiore solidarietà”.

-Nel suo libro mostra la contrapposizione fra le posizioni liberiste e la dottrina sociale della Chiesa. Eppure in Italia la presenza dei cattolici in Parlamento e nel governo è massiccia.
“Prendiamo l’esempio delle delocalizzazioni. Nell’enciclica Caritas in veritate, il papa critica nettamente le delocalizzazioni che hanno l’unico scopo di massimizzare i profitti e che tengono quindi conto degli interessi degli azionisti, ma non di quelli dei lavoratori e del territorio. Ora, quando il presidente del Consiglio, Monti, ha incontrato Marchionne, ha affermato che la Fiat aveva il diritto di scegliere dove investire e produrre. Mi pare che molti politici italiani sventolino la bandiera cattolica quando si tratta di temi etici, ma somiglino invece più ai calvinisti quando si tratta di politica economica”.

Fonte TelevideoRAI

L'intellettuale è uno che non capisce niente, però con grande autorità e competenza. (Leo Longanesi)
 


Cliccate il BANNER sopra, sarete di grande Aiuto. GRAZIE !