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Rapporto sulla pena di morte in Iran: 'Il silenzio è un'arma pericolosa'
Dissidenti condannati per traffico di droga

di Mariaceleste de Martino
(mceleste.demartino@rai.it)



“I bambini assistono alle esecuzioni pubbliche e credono che quella sia la giustizia. Noi vogliamo far capire che non è così e farli crescere come abolizionisti e non criminali”. Così Mahmood Amiry-Moghaddam, presidente e portavoce internazionale di Iran Human Rights, un’organizzazione non governativa, politicamente indipendente, che ha come scopo la difesa dei diritti umani in Iran. Nata nel 2007, con sede a Oslo, ha membri in Europa, Asia, Nord America e Iran.

“Impiccare qualcuno a un albero o in qualsiasi modo non è normale, e l’esecuzione in piazza non è solo un crimine contro la persona, ma contro un’intera popolazione, contro l’umanità. Ma il regime iraniano lo fa apposta. Vuole che la gente creda che la pena di morte sia parte naturale della loro cultura, usando persino i civili, a volte anche parenti giovanissimi del condannato, pagandoli per fare il boia per promuovere la cultura della violenza e far credere loro che la vendetta sia l’unica punizione. E un familiare del condannato a morte reso partecipe dell’esecuzione, oltre che soffrire per la sua perdita diventerà anche un assassino. Un membro del Parlamento iraniano ha detto che la vendetta del popolo è una forma di democrazia, in quanto diritto umano. È questo l’unico diritto umano che viene rispettato”, afferma ironicamente Moghaddam.

Alla vigilia delle elezioni parlamentari del prossimo 2 marzo, prima scadenza elettorale dopo le contestate presidenziali del 2009, Iran Human Rights presenta il rapporto annuale sulla pena di morte in Iran. I condannati a morte aumentano. A cosa serve parlarne? “Anche una sola email che esprima sdegno per la pena capitale o anche una parola contro l’uso della violenza è necessaria a dare voce a chi non l’ha”, dice Moghaddam. “Crediamo nel dialogo, e tutti insieme dobbiamo fare qualcosa per fermare gli abusi altrimenti poi scatta l’intervento militare. Penso che il silenzio sia l’arma più pericolosa”, aggiunge, rifrasando un famoso pensiero di Martin Luther King.

Centinaia i prigionieri impiccati, alcuni minorenni, spesso con la scusa del narcotraffico per non ammettere le contestazioni contro il regime. “Teheran usa la pena capitale come strumento politico per diffondere la paura nella società e per reprimere il dissenso”.

Dopo la Cina “l’Iran detiene il record mondiale delle esecuzioni. Anche se il codice penale è stato modificato la situazione non cambia”, prosegue Moghaddam. “Anzi, nel 2003 l’Iran aveva abolito la lapidazione come pena per l’adulterio. Poi, nel 2007 abbiamo scoperto che la lapidazione veniva ancora usata come metodo per punire e uccidere una donna che aveva tradito il proprio marito. E lo provavano anche delle foto di sassi insanguinati che hanno fatto il giro del mondo. La parola ‘lapidazione’ ora è stata tolta dal Codice, ma la legge non viene applicata e le condanne avvengono a porte chiuse, e inoltre se nella legge scritta il giudice non trova la pena adatta al reato, secondo l’articolo 221 del Codice penale può applicare l’articolo 167 della Costituzione, ovvero rifarsi alla Sharia, cioè la legge islamica, in cui la parola ‘lapidazione’ esiste”.

Fatta la legge trovato l’inganno, potremmo dire con una battuta. Ma la questione è seria di fronte al Diritto internazionale dei diritti umani. “La lotta per il rispetto dei diritti umani deve essere universale”, dobbiamo combattere tutti da essere umani, perché quello che accade agli iraniani può succedere a chiunque”, afferma Moghaddam.

I dati del rapporto 2011 sulla pena capitale in Iran dimostrano che le condanne a morte sono raddoppiate dopo il 2009. Ogni numero rappresenta un essere umano con un nome e una vita. Sono state registrate almeno 676 persone messe a morte, delle quali 416, il 62%, sono ufficiali, quindi rese note dalle autorità iraniane, mentre le altre sono state riferite da testimoni, avvocati o membri di famiglia del condannato. Le esecuzioni in pubblico sono state 65, il più alto numero da oltre dieci anni. Tra i condannati a morte, almeno quattro sono minorenni. “L’età minore è divisa in tre fasce, l’ultima va dai 15 ai 17 e sarà il giudice a decidere se i ragazzi sono maturi abbastanza per essere considerati adulti”, spiega Moghaddam. Le donne condannate sono state 16, ma ben 13 non sono riportate ufficialmente dal governo. Tre i giovani messi a morte per sodomia: “Per la prima volta negli articoli 236 e 237 del Codice si legge la parola ‘omosessuale’, mentre il presidente Ahmadinejad fino allo scorso anno aveva detto che in Iran non esistono omosessuali”, dice Moghaddam, che sottolinea uno stralcio della legge riguardo il reato di omosessualità: “Secondo l’articolo 233 chi ha un ruolo attivo sarà punito con 100 frustate, se non è sposato e se l’atto sessuale è consensuale, ma chi è passivo verrà condannato a morte” .

Tra le centinaia di condannati a morte, un uomo, identificato come Ali Ghorabat, noto anche come “Saed”, è stato impiccato per apostasia “per aver affermato di essere in contatto con Dio e con il dodicesimo Imam Sciita”, ma secondo alcune fonti l’uomo era un ex comandante della Guardia Rivoluzionaria Islamica ed era stato particolarmente critico nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran.



“Sono scuse, e quella più diffusa è l’accusa di commerciare stupefacenti”, dice Moghaddam. “Teheran non vuole ammettere che molti dissentono e protestano contro il regime”.

Come nel caso di Zahra Bahrami, una donna con la doppia cittadinanza, iraniana e olandese, arrestata nel dicembre 2009, all’indomani di una manifestazione di protesta legata alle contestate elezioni presidenziali svoltesi alcuni mesi prima in quello stesso anno.



Picchiata per mesi, senza poter contattare un legale o la sua famiglia. Infine condannata a morte per “Moharebeh”, ovvero ‘inimicizia con Dio’, e poi in seguito anche accusata di possesso di droga. Impiccata il 28 gennaio 2011 nel carcere di Evin a Teheran.

Saeed Malekpour, programmatore informatico, iraniano di nascita e residente in Canada, nel 2008 era andato in Iran a trovare suo padre malato. Fu arrestato con l’accusa di aver gestito siti web “osceni”. Ora è stato condannato a morte e potrebbe essere ucciso da un momento all’altro.



Le nostre sono parole e “ogni anno presentiamo un rapporto sulla pena di morte”, dice Moghaddam, “E voi vi chiederete a cosa serva. Anche un’email o un’azione simbolica servono. Se non reagiamo significa che accettiamo”.

Iran Human Rights è attiva anche in Italia da qualche mese. “Attivisti con professioni diverse, tra cui anche studenti e giornalisti, protestano perché gli iraniani condannati per aver lottato contro la soppressione della libertà di espressione e difensori delle minoranze politiche, etniche e religiose, sarebbero potuti essere noi”, dice con fermezza Marco Cutolo, presidente dell’organizzazione in Italia che denuncia l’annunciata chiusura da parte di Teheran del traffico web internazionale in vista delle elezioni parlamentari del 2 marzo che “fanno pensare a un Paese che il regime vuole sempre più isolato dal mondo e sempre meno libero”.

Ve la ricordate Sakineh? La 43 enne madre di due figli che finì sui manifesti, appesi ovunque, appelli in tutto il mondo per salvare la donna dalla lapidazione. La sua uccisione fu fermata grazie a una campagna internazionale. Ma anche lei ora è di nuovo a rischio di esecuzione. Di recente un giudice iraniano ha segnalato che la condanna alla lapidazione contro Sakineh Mohammadi Ashtiani può essere commutata in condanna a morte per impiccagione. “Vanno salvate queste persone. Dobbiamo fare qualsiasi cosa possibile”, chiede Moghaddam, intervenuto in Commissione Diritti Umani del Senato presieduta da Pietro Marcenaro.



Se l’Iran è tra i primi Paesi al mondo per condanne a morte, cosa ne pensa degli Stati Uniti che si presentano dinnanzi alla Comunità internazionale come primo Paese democratico per antonomasia e ciò nonostante la pena di morte esiste nel loro Codice e viene applicata?
“È una vergogna”, commenta Moghaddam, “Rispecchia una cultura di alcune parti di un Paese grande quanto un continente, come il Texas per esempio. Se la gente lo volesse veramente la pena di morte non esisterebbe”.



Se Ahmadinejad fosse qui in questo momento cosa gli direbbe?
“Sarebbe un enorme passo avanti se lui fosse qui con noi”.

Con la scusa dell’accusa per traffico di droga, l’Iran condanna a morte dissidenti e contestatori contrari al regime. Non pensa che filosoficamente anche il mercato italiano dell’importazione di stupefacenti dall’Iran si renda complice di questo ‘gioco’?
“Sì, dovremmo alzare un muro tra l’Europa e l’Iran e la lotta contro il traffico della droga dovrebbe diventare sempre più forte, questo sì, anche se all’Iran importa poco, quella è una scusa”.

Fonte TelevideoRAI

L'intellettuale è uno che non capisce niente, però con grande autorità e competenza. (Leo Longanesi)
 


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